Ernesto Curtaz, addio all’ultimo alpino valdostano Con il suo saxofono è stato l’allegria del paese
Ernesto Curtaz era l’ultimo alpino valdostano ad avere indossato la penna del Regio Esercito nella Seconda Guerra Mondiale e nel primo pomeriggio di ieri, venerdì 19, le campane della chiesa di Saint Jean hanno suonato per lui, scomparso mercoledì nella microcomunità di Gressoney dove era ospite, a poche ore dal suo novantanovesimo compleanno.
Ernesto Curtaz era diventato alpino per la povertà. Figlio di Arturo e di Caterina Squindo, che si erano sposati nel 1919, dopo che Arturo, classe 1889, era tornato a casa dalla Grande Guerra, accumulando ben otto anni di naja, tra il primo servizio militare, i due anni della campagna di Libia nel 1911 e 1912 e i quattro da richiamato tra il 1915 e il 1918. Il primo figlio fu Corrado nel 1920 anche lui alpino, organista della chiesa di Saint Jean e direttore degli impianti di Weissmatten, poi Elvira, quindi Ernesto il 20 agosto del 1923 ed infine Vito (così chiamato in ricordo di San Vito di Cadore dove papà Arturo aveva combattuto) noto artista della sua valle, continuatore dell’opera dei Curtaz pittori.
Ernesto Curtaz quindi divenne alpino del Battaglione Aosta nel 1942, da volontario come raccontò: «Avevo preso questa decisione, perché a Gressoney la vita era dura, ho tanto portato lo zaino carico su e giù per l'alpeggio di famiglia per andare a vendere il latte negli alberghi, che avevo voglia di vedere il mondo, come si diceva allora e di avere uno stipendio».
«In più - ricordava Ernesto Curtaz - sono sempre stato un appassionato di meccanica e ho pensato che mi avrebbero insegnato. Così è stato, tanto che appena arrivato ad Aosta sono stato destinato al corso di specialista armaiuolo, prima a Spoleto, poi a Terni. Quindi mi hanno tolto la penna da alpino e spedito in fanteria, a Imperia, come caporal maggiore del 41esimo Reggimento della Divisione Modena. Malgrado la caduta di Benito Mussolini il 25 luglio del 1943, nell'agosto sono stato spedito in Grecia, in una situazione di grande confusione e credo che il nostro sia stato uno degli ultimi treni di truppe italiane inviato attraverso i Balcani.»
Non aveva ancora vent’anni Ernesto Curtaz quando ebbe il suo battesimo del fuoco. «Eravamo sul treno nelle foreste dei dintorni di Zagabria quando venimmo attaccati dai partigiani slavi. Il treno si arrestò perché i macchinisti fuggirono, così rimanemmo fermi sotto il fuoco, i vagoni ballavano tutti dai colpi sulle lamiere, i vetri dei finestrini andavano in frantumi. Allora - rammentava Ernesto Curtaz - ho preso il fucile e nell'incoscienza del momento mi sono sporto dal finestrino e ho visto lo spettacolo del convoglio, fermo in semicurva, dal quale facevamo fuoco con tutte le armi possibili. A me è andata bene, ma abbiamo avuto otto morti quella notte.»
Arrivato a Jannina e preso possesso, come nuovo responsabile, dell'armeria, Ernesto Curtaz visse i giorni convulsi del dopo armistizio, della convivenza con i reparti tedeschi, dello sbandamento generale e della resa ai germanici. In tale frangente, lui che parlava il tedesco - «Non ringrazierò mai abbastanza mia mamma Caterina - ricordava - che sin da piccoli parlava a me e ai fratelli direttamente in tedesco», - diventò l'interprete che faceva da tramite tra le migliaia di prigionieri italiani e le autorità tedesche. Trasferito a Traun, in Austria, in un campo di lavoro con circa seicento deportati, continuò a svolgere il suo compito di interprete e visse tante situazioni, assistendo ai bombardamenti alleati su Linz, ammirando nel cielo tante tragiche battaglie aeree, osservando gli internati del vicino campo di Mauthausen ed incontrando le lunghe colonne di derelitti che l'avanzata russa faceva spostare sempre più a ovest. Negli occhi riviveva sempre le immagini di quando nella primavera del 1945 vide sfilare i prigionieri in trasferimento da Auschwitz: «Un gruppo di loro, tedeschi, quindi oppositori politici, nelle chiazze verdi lasciate libere dalla neve mangiavano l'erba sul ciglio della strada, proprio come pecore».
Liberato dagli americani, nel giugno del 1945 rientrò a Saint-Jean, per iniziare a fare l'apicoltore, poi diventò idraulico e caldaista, avendo a lungo l'incarico della manutenzione di decine tra case e condomini di Gressoney. Padre di Eleonora ed appassionato di musica come il fratello Corrado, Ernesto abbinò questo suo amore al saxofono e per tanti anni portò le sue note allegre nel gruppo folkloristico di Gressoney e nelle feste del paese, praticando fino in tarda età pure la caccia, da lui intesa come un’occasione per incontrare le bestie e per stare a contatto con la natura della sua valle.