Vie Nuove 5.5. Incontri.Giuseppe Petigax. Professione guida: una tradizione di famiglia

Vie Nuove 5.5.  Incontri.Giuseppe Petigax. Professione guida: una tradizione di famiglia
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È un’eredità impegnativa quella di Giuseppe Petigax, Courmayeur 1949, maestro di sci e guida alpina, erede di alcune delle guide più forti che hanno fatto la storia dell’alpinismo. Il bisnonno, Joseph Petigax, fu una delle guide predilette del Duca degli Abruzzi, scelto nelle spedizioni al Ruwenzori, al Sant’Elia, al K2 e sulla Stella Polare per tentare di raggiungere il Polo Nord. Grandi guide internazionale furono anche il nonno Laurent e il padre Giuliano.

Cosa significa crescere in una famiglia che della montagna ha fatto una professione, con alle spalle il confronto con la grandezza di tre generazioni?

Sicuramente l’obbligo di onorare degnamente le generazioni precedenti.

Sei stato sulle montagne di tutto il mondo, dall’Everest (dove nel 1992 hai salvato la vita a Simone Moro) al McKinley, da El Capitain al Kilimangiaro, dalle Ande alle Svalbard, oltre naturalmente alle montagne di casa. 192 salite al Bianco in cinquant’anni, sono tante. Possiamo dire che hai vissuto mezzo secolo di grande alpinismo. Come hai visto cambiare il mestiere di guida e l’approccio degli alpinisti alla montagna?

In questi ultimi decenni l’attività di guida alpina è cambiata molto. Le guide giovani non sono più attratte nel fare le grandi salite classiche (Brouillar, Innominata, Peterey, Brenva), ma preferiscono l’arrampicata, anche su vie difficili dove l’avvicinamento non è troppo lungo e non c’è la necessità di dormire in rifugi o bivacchi. Gli alpinisti di oggi sono avvantaggiati dal poter avere a disposizione mezzi di informazione all’avanguardia. Il semplice studio delle relazioni li porta a fare salite più difficili delle loro capacità e della loro preparazione atletica, spesso trascurando il fatto che in alta quota le condizioni della montagna possono variare da un momento all’altro. Per alcuni alpinisti lo scopo principale non è raggiungere la vetta, ma farlo nel minor tempo possibile.

La montagna, a mio avviso, non è solo arrampicare e correre è anche guardarsi intorno, vedere un tramonto o un’alba dalla cima. Sono spettacoli indescrivibili! Anche i materiali si sono evoluti. Su vie di roccia si piantavano chiodi o cunei di legno. Si arrampicava con scarponi tradizionali di cuoio. Oggi si usano friend, nuts e scarpette molto leggere che permettono di superare difficoltà un tempo insormontabili. Sul ghiaccio la piccozza serviva per fare gradini e facilitare la salita. Oggi le piccozze si piantano nel ghiaccio e ci si può appendere con tutto il proprio peso. Anche i ramponi sono cambiati: con le punte anteriori si possono salire pendii verticali come le cascate di ghiaccio.

Una volta, oltre a essere delle grandi guide, erano anche dei grandi esploratori. Ho avuto l’opportunità di ripetere cent’anni dopo le prime salite del mio bisnonno con il Duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di Savoia. Ho scalato il Ruwenzori in Africa e il Sant’Elia in Alaska e mi sono stupito di come abbiano fatto all’inizio del ‘900 a scalare queste montagne. Avevano anche tentato il K2, raggiungendo una quota di 7000 metri.

Alcune storie le hai raccontate nel libro di Ada Brunazzi, Racconti in quota. C’è qualcosa che non hai mai raccontato, in esclusiva per i lettori della Vallée? Momenti difficili o pericolosi, quando magari ti sei pentito di aver scelto questo mestiere?

In oltre 50 anni di attività i ricordi sono molti. Nel 2006 c’è stato il passaggio della fiaccola olimpica che è partita da Albertville, arrivata a Chamonix e portata dalle guide locali attraverso la Mer de glace fino al Colle del Toula. Qui le guide di Courmayeur l’hanno portata fino al Pavillon e, essendo una delle guide più anziane ancora in attività, ho avuto l’onore di trasportala fino a La Palud. E’ stata una giornata molto emozionante che ricorderò per tutta la vita.

Ci sono state salite particolarmente impegnative come il Pilastro Rosso del Brouillar (Via Bonatti), Aguille Noire (via Ratti), El Capitan in California. Salite pericolose a causa della caduta di seracchi come la via Mayor al Monte Bianco. Con un cliente sacerdote, con cui avevo scalato più di 25 volte il Bianco, ho effettuato questa salita. Ha insistito parecchio e non l’ho mai più ripetuta. Nel 1986, anno del bicentenario della prima salita al Monte Bianco, avevo scalato 13 volte il Bianco da 11 vie diverse tutte con clienti. Ricordo anche un bivacco al Colle di Peterey sotto una fitta nevicata senza tenda e sacco a pelo. Al mattino ci attendevano 30 cm di neve fresca. Siamo saliti lungo la cresta di Peterey fino in vetta.

In Cile ho accompagnato degli scienziati che dovevano fotografare e studiare il comportamento di una tipologia di anatra selvatica molto rara (folaga gigante) che nidifica sul lago Chungara a 4570 metri di altezza, uno dei laghi più alto al mondo. In questa occasione, sempre accompagnando un cliente, ho salito il vulcano Parinacota (6380 metri). Giunti al cratere si è scatenato un temporale e sono stato colpito da un fulmine che mi ha fatto cadere per un paio di metri. Per fortuna non sono finito nel cratere. Dallo spavento sono rimasto a terra senza riuscire a respirare e mi sono incrinato due costole.

Cosa ci vuole per essere una brava guida alpina?

Tanta passione ed essere consapevoli che non è un mestiere redditizio. Se tornassi indietro rifarei sicuramente questo mestiere perché mi ha permesso di girare il mondo, di conoscere tante persone, alcune delle quali sono diventate miei clienti e grandi amici. Un legame profondo che dura da oltre 30 anni. Con loro ho avuto la possibilità di organizzare e partecipare a ventidue spedizioni extra europee.

So che è una domanda imbarazzante, ma se dovessi suggerire a uno storico le guide che hanno fatto la differenza, quelle che hanno diffuso nel mondo la fama delle guide valdostane (escluse quelle in attività che non sembri uno spot pubblicitario), chi non potrebbe mancare in una storia dell’alpinismo valdostano?

Ritengo che Alessio Ollier possa essere considerato l’ultimo che ha meglio interpretato il ruolo della guida alpina.

Premesso che l’alpinismo e la vita stessa sono cambiati sostanzialmente in questi ultimi 50 anni, ritengo sia giusto ricordare le guide che hanno vissuto l’alpinismo “eroico” delle prime salite e delle spedizioni extraeuropee. Scorrendo la storia delle guide di Courmayeur possiamo parlare di Rey, Petigax, Ollier, Ottoz, Fenoillet, Savoye, Croux, Brocherel, Puchoz, Viotto, Gobbi.

Se vogliamo ampliare il panorama possiamo ricordare Gaspard, Bich, Carrel, Meynet, Pession, Pellissier, in Valtournenche; Favre, Colli, Dondeynaz, Squinobal, Rial, a Gressoney e Champoluc.

Questi nomi ci ricordano un alpinismo che oramai è superato. Nuove tecnologie hanno cambiato il modo di fare attività alpinistica. I nostri giovani si sono adeguati alle mode, ma non per questo hanno smesso di arrampicare. Continuano a fare le guide alpine, ma in modi molto diversi.

La copertina del libro di Ada Brunazzi “Racconti in quota con Giuseppe Petigax”

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