Nelle missioni, a condividere la vita con gli «eroi per abitudine» Marcello Sgarbossa al suo 55esimo anniversario di ordinazione

Nelle missioni, a condividere la vita con gli «eroi per abitudine» Marcello Sgarbossa al suo 55esimo anniversario di ordinazione
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Il padre oblato Marcello Sgarbossa, 79 anni, superiore della comunità dei Padri Oblati di Maria Immacolata ad Aosta, ha ricordato sabato scorso, 19 marzo, festività di San Giuseppe, il suo 55esimo anniversario di ordinazione sacerdotale avvenuta a San Giorgio Canavese il 18 marzo 1967. In occasione di questo evento gli abbiamo posto alcune domande.

Padre Sgarbossa, quando scoprì la sua vocazione?

«La vocazione è un dono che Dio pone nel cuore di una persona come un piccolo germoglio che cresce secondo i tempi ed è nutrito dall’ambiente in cui vive: la famiglia, la scuola, l’ambiente, i modelli di vita degli adulti. Per me il luogo della vita era la parrocchia che negli anni Cinquanta aveva sede nella Chiesa di Santa Croce. Quello che mi colpiva dei Missionari era la loro gioia e la loro povertà. Poi uno di loro mi chiese se volevo diventare missionario e subito risposi di si. Il primo grande sacrificio fu quello di lasciare la mia famiglia e andare nel piccolo seminario degli Oblati, che si trovava nel Veneto. Avevo dieci anni, partire mi costava ma faceva parte della promessa».

Negli anni Cinquanta diversi ragazzi del Quartiere Cogne scelsero di entrare in seminario. Lei, Giancarlo Todesco, Giancarlo Gariglio, che è incardinato in diocesi ed è stato anche missionario in Brasile, e prima di loro Benito Framarin, Dario Centomo, Lino Maddalena, Luigi Costa. Come spiega quella fioritura di vocazioni al sacerdozio?

«La parrocchia era una grande e gioiosa famiglia. In un modo o nell’altro tutti i suoi abitanti dipendevano dalla Cogne. Le famiglie erano numerose, e la coscienza di una vita onesta e cristiana era presente in tutte. Non mancava l’antagonismo ideologico, ma i ragazzi che sono partiti appartenevano tutti a famiglie cristiane».

E dove ha svolto il suo ministero sacerdotale?

«La mia passione sarebbe stata andare nelle missioni estere, ma i superiori decisero diversamente. E la mia vita missionaria posso riassumerla così: quindici anni come formatore dei giovani in ricerca vocazionale e l’accompagnamento come maestro dei novizi. L’altra parte l’ho vissuta percorrendo l’Italia dalla Sicilia alla Lombardia. Piccoli paesi e anche grandi città come Messina, Trani, Padova, Brescia, Vercelli e Alessandria. A volte si cominciava la missione in una città e poi altre richieste arrivavano numerose, come avvenne proprio in Valle d’Aosta nel 1988, dove dopo quella nelle parrocchie dell’Immacolata e di Saint-Martin-de- Corléans ci furono le richieste di Saint-Vincent, Châtillon e di tutta la Bassa Valle. Sei anni dei miei cinquantacinque li ho vissuti come responsabile dei Missionari Oblati in Italia e nel mondo. Questo incarico mi ha permesso di visitare ogni anno, dal 2002 al 2007, le missioni del Senegal, Guinea-Bissau, Uruguay e Romania. Su mandato del Padre Generale visitai i missionari italiani in Thailandia, Indonesia, Corea, Venezuela e Canada. Restavo sempre più settimane in ognuna di quelle missioni per condividere la vita con quegli “eroi per abitudine”. Conoscere, vedere, partecipare alla loro vita mi ha insegnato molte cose. Per questo ho sempre scritto dei diari che poi ho pubblicato. Conoscere apre la mente e muove il cuore».

Cosa risponde a chi sostiene che, essendo diventata l’Italia una terra di «missione», non sia più necessario che tanti sacerdoti vadano ad evangelizzare in Paesi lontani?

«Chi si pone questa domanda soffre di miopia congenita, perché non sa vedere oltre il suo piccolo orizzonte, che possono essere le nostre splendide montagne o il nostro Mediterraneo, che davanti agli oceani appare come un piccolo lago. L’Occidente fatica a riconoscere le sue radici cristiane, questa scristianizzazione che è cominciata già negli anni Cinquanta. Un processo lento come lo scioglimento dei nostri ghiacciai: prima è andata in crisi la fede sotto la spinta del benessere, il cui costo pagato è stata la distruzione del concetto di famiglia, da qui il titolo che abbiamo nel mondo di “Italia paese delle culle vuote”. Forse bisogna tornare a rimettere in azione i valori, quelli fondanti, di cui il primo è chiaro: nessuno vive per sé stesso, ma ognuno vive grazie ad altri e per gli altri. Vivere significa donarsi ed è nel dono di sé che ci si realizza e si garantisce un futuro alla razza umana».

In Senegal l’Associazione Amici di Manuela Noelli Ziviani e dei Missionari Oblati di Maria Immacolata costruisce una scuola. Al termine della Messa prefestiva di sabato scorso e in quelle della domenica successiva è stata distribuita ai fedeli una busta che conteneva la scheda di adesione.

«L’Associazione Amici di Manuela e dei Missionari Oblati di Maria Immacolata-ETS ha per finalità la costruzione della scuola in Senegal e dei lavori di abbellimento del nostro Santuario e dei bisogni sanitari e nutrizionali dei bambini in Senegal e Guinea-Bissau. Chiunque voglia saperne di più può rivolgersi in parrocchia in orario d’ufficio».

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