Incontri 7. Pietro Giglio: professione guida
Incontri 7. Pietro Giglio: professione guida
Laureato in Scienze politiche e in Antropologia culturale ed etnologia, Pietro Giglio è guida alpina, è stato presidente della Compagnie des Guides de la Valpelline et du Grand Saint-Bernard, dell’Unione Valdostana Guida di Alta Montagna e del Collegio Nazionale Guide alpine italiane. Giornalista professionista, ha diretto la “Rivista della Montagna” e “Oasis” ed è stato redattore nella TGR della Valle d’Aosta. Documentarista e regista ha realizzato per dieci anni il programma televisivo “Quimontagne” della sede regionale RAI della Valle d’Aosta.
Oggi stiano assistendo al riscatto degli Sherpa che da portatori-servi stanno diventando i pionieri (e gli imprenditori) dell’alpinismo d’alta quota. Il Project Possible (un libro di cui abbiamo parlato, ora anche un film) di Mirmal Purja e l’ascesa invernale di un anno fa al K2 segnano un svolta nei rapporti fra guida e cliente sulle montagne del Nepal e del Pakistan. Qualcosa di simile era accaduto da noi fra Otto e Novecento?
Convenzionalmente la nascita del mestiere di guida alpina nella nostra regione si data dall’arrivo in Valle d’Aosta di Horace-Bénédict de Saussure, nel 1774. Da allora semplici montanari sono diventati, insieme ai loro clienti, protagonisti di quella che è stata definita la conquista dei 4000 delle Alpi. Quelle ascensioni erano maturate nella mente di cittadini inglesi, americani, francesi, tedeschi che non raramente erano in competizione tra loro. Quasi tutti appartenenti a quella borghesia che in Europa ha dato l’avvio alla prima rivoluzione industriale. In quella fase dell’alpinismo le guide alpine dell’arco alpino, quindi anche quelle valdostane, hanno avuto un ruolo fondamentale, ma gregario. Erano generalmente loro a individuare un itinerario possibile per raggiungere le cime che gli alpinisti avevano classificato in ordine di importanza, generalmente per la loro altezza sul livello del mare: in questa fase Jean-Antoine Carrel e Joseph Maquignaz hanno lasciato un segno. Dopo quel periodo di conquista delle Alpi, alla fine del XIX secolo, gli alpinisti hanno rivolto il loro sguardo alle montagne extraeuropee, sulle quali le guide alpine valdostane hanno continuato ad avere il ruolo gregario di conduzione tecnica lungo il percorso di salita. Un esempio di questo ruolo è l’esplorazione del K2 del 1909 nella spedizione capitanata dal duca degli Abruzzi, nel corso della quale le guide alpine valdostane avevano stabilito il record mondiale di altezza raggiungendo la quota di 7493 metri sul Bride Peak. Nelle esplorazioni organizzate da Luigi Amedeo di Savoia, compresa quella al Polo Nord nel 1899-1900, le guide alpine di Courmayeur e di Valtournenche hanno portato il loro fondamentale contributo nell’individuazione dei percorsi verso le mete che il duca aveva individuato.
Quindi bisogna attendere il primo dopoguerra per vedere le guide valdostane protagoniste dell’alpinismo esplorativo?
Dopo la Grande Guerra sono state le guide alpine a individuare autonomamente nuovi itinerari sulle Alpi, dove l’alpinismo assumeva caratteristiche sportive legate al superamento del sesto grado, allora considerato limite insuperabile. Negli anni Venti e Trenta del Novecento in Valle d’Aosta i nomi di Adolphe Rey e subito dopo di Louis Carrel, detto il Carrelino, sono legati all’individuazione di nuovi itinerari, così dette “vie nuove”, portati a termine anche con clienti. Dopo più di un secolo di ruolo culturalmente gregario, seppure fondamentale tecnicamente, le guide assumevano l’iniziativa proponendo ai clienti nuove vie da aprire insieme in cordata. È in quel periodo che il prestigio delle guide alpine ha assunto dimensioni importanti, tanto che le loro imprese hanno lasciato tracce nella stampa, nell’iconografia, nella letteratura e nella cinematografia. È stato un periodo d’oro che è ripreso al termine del secondo conflitto mondiale, quando l’alpinismo occupava spazi importanti nella stampa nazionale e internazionale. I nomi di Hermann Bull, Kurt Diemberger, Walter Bonatti, Achille Compagnoni, Camillo Pellissier, Arturo Ottoz, Cesare Maestri, Arturo e Oreste Squinobal, solo per citarne alcuni, figuravano nelle cronache alpinistiche anche di prima pagina.
E oggi dove sta andando l’alpinismo valdostano?
Gli anni Ottanta hanno visto affievolirsi l’interesse mediatico per l’alpinismo sulle Alpi per spostarsi in Himalaya, dove gli alpinisti inglesi hanno aperto itinerari di straordinaria difficoltà tecnica su cime di settemila metri talvolta inviolate e sugli Ottomila. Un tentativo di aprire un nuovo itinerario sul Kangchenjunga nel 1982 da parte della spedizione valdostana capitanata da Franco Garda si è risolto con la salita alla terza vetta del mondo da parte delle guide Innocenzo Menabraz e Oreste Squinobal, il secondo senza ossigeno, lungo la via dei primi salitori. L’interesse mediatico per quel periodo era concentrato sulla salita dei 14 Ottomila dell’Himalaya senza ossigeno di Reinhold Messner, impresa conclusa nel 1986. Dagli anni Ottanta l’interesse alpinistico delle guide alpine valdostane è diretto prevalentemente verso l’Himalaya e si concentra sui 14 Ottomila, malgrado che in quella catena montuosa non manchino né cime inviolate da salire né nuove vie di valore estetico e di grande difficoltà da aprire. La necessità dei protagonisti di raggiungere visibilità nel contesto dove l’immaginario colloca l’alpinismo in questo periodo storico, ossia l’Himalaya, sacrifica, seppure con qualche eccezione, quello che fino a qualche decennio addietro era definito l’alpinismo di ricerca. Questo tipo di alpinismo si coniuga con l’esplorazione, attività che nella contemporaneità non riveste eccessivo interesse, forse perché le costellazioni di satelliti artificiali che scrutano ogni anfratto del nostro pianeta hanno sminuito la curiosità per la conoscenza diretta delle montagne di territori geograficamente isolati. Le montagne dell’Himalaya non hanno smesso di essere simbolo dell’alpinismo stesso nell’immaginario e se ne sono accorte anche le aziende che sponsorizzano l’alpinismo di punta e le spedizioni ad esso indirizzate. In Valle d’Aosta l’alpinismo di alto livello è prerogativa prevalente di giovani guide alpine, mancando quasi del tutto quel substrato sociale che in altre realtà ha visto e vede ancora emergere alpinisti dilettanti di alto livello tecnico. La cronaca alpinistica odierna conferma l’interesse dell’alpinismo valdostano verso i quattordici Ottomila, sui quali la sfida si è spostata, come già era avvenuto sulle Alpi tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del Novecento, dalle fasi della conquista e della ricerca di vie nuove alla prima salita dei colossi himalayani in stile alpino, nella stagione invernale o in velocità.