Addio Piero Roullet, albergatore e sognatore professionista Trasformava in realtà ciò che gli altri neppure immaginavano
E’ il desiderio di tutti quello di vedere i propri sogni, piccoli o grandi che siano, infine realizzati. Piero Roullet di sogni ne avuti talmente tanti che è difficile stilarne un elenco, è certo però che li visti tutti concretizzarsi e questa non è una cosa che avviene spesso.
Eppure a lui è successo, complice sicuramente il fatto di essere nato in un’epoca - era il 1945, il giorno 6 del mese di settembre - nella quale la Valle d’Aosta e la sua economia erano ancora ancorate ai valori di una civiltà rurale ed alpina millenaria e di avere vissuto negli anni di grandi cambiamenti, cambiamenti epocali, che Piero Roullet è riuscito a gestire rendendosi protagonista in prima persona. Per fare ciò, in ogni fase della sua vita ha imparato, con quello spirito di apprendimento che ha sempre contraddistinto i personaggi di maggiore spessore. Piero Roullet non solo era un attento osservatore, lui si calava nelle situazioni, cercava di capire il più possibile di ogni cosa, spinto da una curiosità atavica e soprattutto aveva quella capacità unica di adattare quando recepiva al contesto che gli interessava.
Ricordava sempre della sua giovinezza di quando aveva attaccato - erano gli anni Sessanta - una delle prime falciatrici meccaniche alla mula, un bel passo avanti, diceva Piero, rispetto al falciare a mano, un ingegnoso espediente diremmo noi, pensando alle pendenze dei prati valdostani e di come lui avesse coniugato una novità assoluta con la forza animale, che per secoli è stata l’unico aiuto dei nostri montanari. Perché Piero Roullet era cresciuto insieme alla sorella Elfrida, di tre anni più giovane, in una cascina, o meglio in due cascine, quella del papà Augusto a Nicolin di Saint-Christophe, acquistata dopo l’arrivo del bisnonno originario di Arvier, già proprietario della grandze della parrocchia, e quella della famiglia della mamma Rina, a Champ d’Hône, due complessi rurali della borghesia agraria della Valle d’Aosta dell’Ottocento, dove l’odore del fieno e della frutta si mischiava al profumo dei fiori, tra mobili antichi, i pavimenti fatti di lose ed i soffitti alti. I suoi erano “proprietaires” come si diceva all’epoca, agricoltori ed allevatori benestanti, possidenti di prati, campi e stalle nel fondo valle, dei mayens per la primavera e l’autunno e dell’alpeggio per l’estate, in modo da governare per l’intero anno il ciclo delle stagioni e di quell’economia basata sulle risorse della natura.
Quello fu l’imprinting di Piero Roullet, la “marca” di una vita che non ha mai dimenticato il passato, che ha stratificato esperienze su esperienze per ottenere risultati continui, uno dopo l’altro. Non per niente per lui era così necessario il contatto con la natura, conosciuta in tutte le declinazioni, come quell’amore per l’alpeggio, il suo è nella selvaggia testata della Valpelline, a Bionaz e da quell’alpeggio voleva le fontine da offrire ai clienti del Bellevue, un legame che può sembrare superfluo per un imprenditore del suo calibro e che invece per lui era un punto fermo: fare apprezzare la fontina nata dall’erba dei pascoli della sua famiglia.
Piero Roullet aveva studiato come geometra e dopo il diploma era sceso al Politecnico di Torino per frequentare ingegneria. Era al secondo anno quando scoppiò la contestazione studentesca che portò al “68”, visse quegli entusiasmi e anche la delusione di un mondo cambiato ma non in quello che lui e tanti altri speravano. Quei mesi intensi però lo videro abbandonare l’università e trasferire il suo entusiasmo nella partecipazione alla nascita del movimento dei Democratici Popolari nel 1970, nell’anno del matrimonio con Paola Jeantet, insegnante al “Manzetti” di Aosta, come anche Piero diventerà nello stesso istituto, ma per i geometri, fino al 1975, abbinando l’attività di libero professionista, inizialmente collaborando con i Campane poi da solo. I suoi primi progetti denotavano già un rapporto speciale con il territorio e con i suoi materiali e negli anni Settanta fu uno dei primi a riscoprire l’uso della pietra. L’impegno totale in tutto quello che faceva lo portò a diventare presidente del Collegio valdostano dei geometri nel 1978, trentatrenne, e lo fu per dieci anni. In quel periodo avvenne la grande svolta della sua vita, una svolta praticamente casuale, che lo coinvolse nella straordinaria avventura dell’Hotel Bellevue di Cogne, albergo nato nel 1926 ed oggi uno dei luoghi dell’ospitalità più belli dell’intero arco alpino. A precedere quel momento, il geometra Roullet si era avvicinato al turismo collaborando con la famiglia Savoretti, allora alla guida delle funivie della Val Veny, che a Courmayeur spinse molto per la realizzazione di alberghi e per la ristrutturazione di quelli esistenti, osteggiando la creazione di seconde case.
Con la moglie Paola, i cognati Pia Cuneaz e Carlo Jeantet, Piero Roullet mise anima e cuore nella nuova attività, portando come bagaglio quello che aveva compreso a fianco dei Savoretti, lui che non conosceva direttamente il settore alberghiero e che però con la sua curiosità, con la sua intelligenza in pochi anni - osservando tanto, ascoltando tanto, imparando tanto - trasformò in uno scrigno di bellezza. La sua passione per i mobili della tradizione valdostana - testimoniata dalla spettacolare grande piattaia proveniente dalla casa della mamma Rina che domina la sala del ristorante - si allargò presto alle regioni vicine, con ricerche nel Piemonte, nel Dauphiné, nel Queyras, per abbellire non solo le sale comuni ma tutte le stanze, in un moto continuo, come Piero, che non stava mai fermo. Acquisito un obiettivo, pensava già al prossimo, un sogno dopo l’altro, un risultato ottenuto dopo l’altro, soddisfazioni personali, intime, mai sbandierate, anche perché spesso le sue idee non erano capite come lui avrebbe desiderato e per questo motivo la politica non è stata sua compagna a lungo. Anche la delusione di non essere stato eletto sindaco di Cogne nel 2010, per lui fu tutto sommato molto parziale, perché aveva altro a cui dedicarsi e se non lo avevano voluto, allora questo era un problema per gli altri, non per lui che si sarebbe dedicato con grande impegno a Cogne e che così invece poteva continuare ad occuparsi delle sua famiglia e delle sue attività. Eppure Cogne gli deve tantissimo, con Paola e Carlo prima e con Laura sua figlia dopo ha portato l’Albergo Bellevue a dei livelli poco immaginabili se non da un visionario coraggioso come lui. Tuttavia il Bellevue è solo il punto focale di un mondo, che lo ha visto aprire la Brasserie Bon Bec, il Bar à Fromage, Le Petit Bellevue, ristorante stellato di Cogne, secondo una strategia di offerta alla clientela di approcci e sapori diversi, tutti comunque riconducibili alla tradizione alpina, perché Piero Roullet, accademico della cucina, è stato un profondo conoscitore della gastronomia valdostana e della sua storia, povera storia come spiegava spesso, storia di una cucina con scarsi ingredienti e quindi fatta di tanta fantasia per presentare in modo diverso quel poco che la terra offriva. Poi il negozio di articoli di montagna e quindi la sua attenzione per il Bellevue, che lui chiamava casa, come chiamava sempre collaboratori tutti i dipendenti, ormai settanta. Il Bellevue inteso come una vezzosa e bellissima donna, da rinnovare costantemente senza mai perdere il filo di quello che deve rappresentare: così sono nate le camere arredate una ad una con mobilio d’epoca ed antichi ritratti, successivamente le stesse camere sono state ampliate, diminuendone il numero e creando nuovi spazi all’esterno, con la dépendence vicino al garage sotterraneo e il tunnel di collegamento. Quindi la sistemazione del giardino, con la straordinaria idea dell’orto circolare, gli spazi destinati ai bambini, quelli dedicati al benessere, tanto che fu tra i primi a puntare su di un ambiente specifico di alto livello, che rinnovò sempre più bello, sempre più grande, giocando d’anticipo su quelli che sarebbero stati i desideri della clientela. E ancora i nuovi splendidi balconi vetrati, la suite che domina il grande Prato di Sant’Orso, l’utilizzo di nuovi materiali, come appunto il vetro e l’acciaio corten, abbinati al legno antico delle sue collezioni, la ricerca puntuale dei dipinti di pittori di fama che avessero ritratto Cogne.
Era bello ascoltare Piero Roullet quando consapevole del suo mondo e delle sue scelte legate a quel mondo diceva con una saggezza antica sempre più rara nei valdostani di oggi: “Il pastore è soddisfatto della sua mandria, il vignaiolo della vigna a cui può badare e così io sono soddisfatto della mia conduzione famigliare, non ho mai pensato di allontanarmi dalla montagna e di creare qualcosa altrove.”
Questa era la filosofia di Piero Roullet - presidente degli albergatori valdostani dal 1998 al 2004, primo presidente della Camera di commercio dal 2003 al 2006 - che non è cambiata neppure con l’arrivo del male. Ha continuato a pensare al futuro, ai lavori da intraprendere ed a quelli da ultimare. Ha guardato oltre ai mesi, pochi, che gli avevano concesso, è andato in Germania ad assistere allo spettacolo della nipote Sophie Borney, figlia di Rodolfo e della sua Silvia, e ne è tornato rigenerato ed orgoglioso, ha frequentato gli altri suoi nipoti Pietro e Leonardo Imbimbo, i due ragazzi di Domenico e della figlia Laura, concreti continuatori insieme alla loro mamma della meravigliosa avventura del Bellevue di Cogne. Ha guardato le ultime pagine del libro della sua vita girare una dopo l’altra e si è preparato. Secondo il suo stile ha scelto la bara, diversa, moderna, ed ha scritto l’epigrafe, stabilendo per un ultimo saluto a Cogne dopo la funzione funebre di percorrerne le strade con la sosta finale davanti all’ingresso del Bellevue, in mezzo agli amici di una vita, ai sostenitori di tante idee, prima della discesa definitiva a valle.
E’ successo nel pomeriggio di lunedì scorso, 24 gennaio, quando Cogne si è fermata per lui, accogliendo centinaia di persone arrivate da tutta la regione per stare ancora una volta vicine a Piero, spentosi nelle prime ore di sabato 22 al Beauregard di Aosta, poco lontano dalla lunga casa di Saint-Christophe dove era cresciuto.