Incontri 6. Arturo Squinobal. Dalle Alpi all’Himalaya (un alpinismo d’altri tempi)
Incontri 6. Arturo Squinobal. Dalle Alpi all’Himalaya (un alpinismo d’altri tempi)
Arturo Squinobal, falegname e guida alpina, cresciuto a Gressoney, è l’emblema di un alpinismo che non c’è più. O forse è solo scomparso dai riflettori dei media. Un alpinismo fatto di umiltà e di amore per la montagna. Eppure capace di grandi imprese sulle Alpi e in Himalaya. La sua storia, e quella del fratello Oreste, che nel 1982 salì sul Kanghendzonga senza ossigeno, sono raccontate nel bel libro di Maria Teresa Cometto, Due montanari. Arturo e Oreste dalle Alpi all’Himalaya, pubblicato per la prima volta da Corbaccio nel 1985 e recentemente riedito con una postfazione di Paolo Cognetti.
Innanzitutto cosa è successo dopo l’82, visto che il libro si ferma alla spedizione sul Kanghe, ma voi avete continuato a scalare. A noi che ci limitiamo a leggere in poltrona il racconto degli eroi dell’alpinismo estremo pare che “l’aria sottile” sia un po’ una droga e che la pressione mediatica (e gli sponsor) ti obblighi ad andare sempre più “oltre il possibile”. Cosa è cambiato per voi dopo il primo Ottomila?
L’esperienza Himalayana è sicuramente stata una novità che ha allargato i nostri orizzonti. A quei tempi, andare in Himalaya era la naturale evoluzione dell’alpinismo poiché gli ultimi grandi problemi delle Alpi, le salite invernali, erano stati risolti. A quell’epoca ci sembrava di avere contribuito abbastanza alla storia dell’alpinismo e quindi era tempo per noi di concentrarsi su altre sfide, in questo caso imprenditoriali. Siamo partiti per l’Africa per costruire, per conto di un cliente di Oreste, una segheria di essenze pregiate della foresta tropicale del Kiwu. L’esperienza ebbe in principio un aspetto di romantico. Noi Walser ce l’abbiamo nel sangue la colonizzazione, ma di terre alte e deserte, non di popoli: la sensazione era di portare via delle materie prime da un continente con cui generare ricchezza in un altro, lasciandosi dietro solo briciole. Decidemmo quindi di tornare a casa e la sfida era portare in montagna, anche su salite molto impegnative, i nostri clienti che, stagione dopo stagione, tornavano (alcuni tornano tuttora) per coltivare la loro passione con noi. Oreste ed io eravamo molto affiatati e spesso ci rendevamo conto che la somma di 1+1 in certi casi dà molto più di 2. “Oltre il possibile” non ci volevamo andare e non ci siamo mai andati. La nostra fortuna era di avere entrate sufficienti come falegnami e guide alpine, senza dover firmare contratti con nessuno. Nel '93 siamo tornati in Tibet, questa volta anche con Renzo: tre fratelli guide e sei clienti con l’obiettivo di scalare il Cho Oyu, 8201 m. Sebbene la vetta non sia stata raggiunta per via delle grosse nevicate, l’esperienza è stata indimenticabile. Cosi come in seguito siamo riusciti a portare un gruppo di parigini sulle montagne più alte dell'Ecuador, oltre i 6.000 metri di altitudine»
Tu hai vissuto da vicino tutta la parabola dell’alpinismo moderno, dai tempi di Cassin e di Bonatti alle invernali sul K2. Cosa è cambiato? Cosa rimpiangi dell’alpinismo della tua giovinezza? Cosa invidi agli alpinisti di oggi?
«Nessun rimpianto e nessuna invidia. Penso che ognuno abbia il diritto di vivere nell’epoca in cui si trova e affrontare le sfide che si presentano in quel tempo. Dire che ieri è meglio di oggi è troppo facile. Ho vissuto e sto vivendo la montagna e la professione di guida alpina attraverso quasi sessant’anni, i cambiamenti avvengono impercettibilmente, stagione dopo stagione. Se guardo in fondo all’armadio posso ancora trovare dei vecchi scarponi e chiedermi: “Ma come potevo camminarci per delle giornate intere? Adesso è tutto più facile!” Preferisco tuttavia tenere l’armadio chiuso e indossare calzature al passo con i tempi».
Dal tuo libro, come dalla tua vita, emerge che sei fondamentalmente una guida: la sicurezza del cliente è più importante del successo; l’obiettivo non è la vetta, ma tornare a casa. Cosa suggeriresti a un genitore, a un educatore, per avvicinare un giovane alla montagna? Quali sarebbero i primi insegnamenti a un principiante?
«La cosa migliore per appassionare qualcuno alla montagna è portarcelo. Puoi vedere le foto più suggestive su Instagram, puoi leggere l’ennesimo libro sul Cervino, puoi vedere i video ad alta definizione su Youtube, ma essere a 4.200 metri in punta alla Pyramide Vincent crea delle sensazioni, delle emozioni irriproducibili. E ogni volta è diverso, variazioni di luce, condizioni della neve, uno stambecco che sbuca dalla cresta est, la est del Lyskamm completamente innevata oppure spoglia, una farfalla sulla traccia arrivata chissà come a questa quota. Se poi quassù ti piace, allora ecco che la passione si sviluppa e ti fa tornare fino a quando le tue gambe te lo permettono. Ho portato parecchi ultraottantenni sul proprio ultimo quattromila. L’aria sottile preferisco definirla come un nutrimento dell’anima più che una droga. Anche perché, personalmente non sviluppo nessuna assuefazione».
Oggi si discute molto del futuro della montagna: riscaldamento climatico, sviluppo sostenibile, green economy, alternative allo sci, wilderness, funivie, sono alcuni dei temi che dividono il mondo della cultura e della politica. Concretamente, dalla tua esperienza di falegname e guida alpina che la montagna l’ha vissuta davvero, cosa suggeriresti a chi deve prendere delle decisioni?
«In primis attingerei come esempio allo stile di vita dei Walser che, abituati a vivere in un ambiente dove le risorse sono scarse, valorizzano quelle che hanno a disposizione e le gestiscono con parsimonia e oculatezza garantendone l’integrità anche per le generazioni successive. Inoltre la guida alpina cammina con passo misurato, mai troppo lungo e calibrato per avere sempre delle energie a disposizione nel caso in cui si guasti il tempo. Più che il tempo qui si sta guastando il clima: a maggior ragione qualche passo avanti sarebbe bene farlo anche in altre direzioni più in armonia in la natura e questo riguarda tutti noi, non solo i decisori».