Nella sentenza dei giudici d’Appello la rete dei rapporti tra mafia e potere

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Sono state depositate alla fine dello scorso mese di dicembre le 844 pagine con le quali i giudici della prima Sezione penale della Corte d’Appello di Torino motivano la sentenza di condanna emessa lunedì 19 luglio dello scorso anno nei confronti di Bruno Nirta, 62 anni, di San Luca, Marco Fabrizio Di Donato, 51 anni, suo fratello Roberto Alex Di Donato, 43 anni, e Francesco Mammoliti, 49 anni. Secondo i magistrati sono stati loro a promuovere la “locale” di ‘ndrangheta di Aosta «Attraverso una rete di rapporti improntati ad una costante azione, espressione di pressione e intimidazione» - pur esercitati «Senza il ricorso ad atti marcatamente violenti» - che è riuscita «Di fatto a costruire una rete di relazioni, connivenze, rapporti con istituzioni e con esponenti con ruoli di interesse in settori importanti delle attività economiche e politiche», funzionali «Alla creazione di quel tessuto connettivo necessario per realizzare gli scopi e le finalità di un’associazione di tipo mafioso». Le indagini, coordinate dalla Dda di Torino e condotte dai Carabinieri del Reparto Operativo di Aosta, erano iniziate nel 2014 per poi concretizzarsi, nel gennaio 2019, nell’operazione “Geenna” con 16 arresti. Una vicenda giudiziaria che si divise in 2 filoni processuali, quello con rito ordinario davanti al Tribunale di Aosta e l’altro in “abbreviato” a Torino. Le motivazioni della sentenza depositate pochi giorni or sono, fanno riferimento a quest’ultimo. I giudici ritengono che sia chiaro il ruolo di Bruno Nirta «Di intermediario tra gli affiliati ‘ndranghetisti presenti nella regione e le cosche calabresi». Marco Fabrizio Di Donato, coadiuvato dal fratello Roberto Alex, sarebbe stato al vertice della cellula della mafia calabrese organizzata ad Aosta. La Corte d’Appello, rispetto a quanto emerso da attività investigative del passato, annota il «Mutamento dei rapporti e dei collegamenti con la “casa madre” calabrese». Il baricentro della “cellula” insediata in Valle d’Aosta - mettono nero su bianco i magistrati - «Risulta spostato dalla ‘ndrangheta tirrenica a quella ionica e, in particolare alla “locale” di San Luca».

Dall’esame del materiale probatorio, i giudici d’Appello respingono i ricorsi degli imputati sulle condanne di primo grado e concludono che in Valle d’Aosta, negli anni delle indagini «Molteplici settori risultano concretamente condizionati da attività e strategie riferibili all’associazione». Il riferimento, in particolare, è ai settori «Dell’edilizia privata e del commercio ambulante di generi alimentari, quello delle concessioni e degli appalti pubblici con l’ingerenza nella vita politica del territorio volta ad ottenere vantaggi in termini di commesse lavorative da enti pubblici».

A tali ambiti «Si aggiunge l’intervento del sodalizio nel settore politico, proponendosi come organismo convogliatore di voti da indirizzare a plurimi candidati in campagne elettorali amministrative e regionali in cambio di utilità». A tal proposito, viene precisato che le cosiddette «Utilità» erano legate al «Conseguimento di posti di lavoro, di concessioni ed appalti e di altri favori e facilitazioni nella soluzione di pratiche amministrative», o comunque dalla «Pervasiva presenza di membri dell’associazione medesima all’interno delle Amministrazioni comunali mediante propri rappresentanti o soggetti ad essa contigui».

Il “gruppo unitario”

Secondo i giudici torinesi esisteva una “locale” aostana non solo perché in diverse circostanze «Gli imputati si sono presentati o sono stati percepiti all’esterno come appartenenti ad un gruppo unitario», capace di «Esprimere una consolidata forza intimidatrice», per «Forza propria e per i collegamenti con soggetti notoriamente appartenenti alle “cosche” calabresi», ma pure per via di una gerarchia nella struttura organizzativa «Con diversificazione di compiti e funzioni tra gli associati e distinzione tra ruoli apicali e ruoli partecipativi».

Dal punto di vista della Corte d’Appello, perciò, le indagini hanno messo in luce «Il rispetto dei riti e delle pratiche di affiliazione, l’utilizzo di termini propri di un linguaggio codificato noto ai soli associati, l’assistenza economica ad altri associati in stato di restrizione, l’attivazione per sottrarsi ad eventuali investigazioni dell’autorità giudiziaria, la corresponsione di utilità economiche a familiari di riferimento in Calabria, oltre alla ricorrenza di presupposti strutturali funzionali alla operatività dell’associazione». Tra di essi «L’impiego di utenze dedicate da alcuni degli imputati» e «La disponibilità di luoghi in cui effettuare incontri e riunioni e assumere decisioni». In questa prospettiva, i giudici indicano l’abitazione di Marco Fabrizio Di Donato «In cui gli associati si incontrano riservatamente».

Nella sentenza, inoltre, viene evidenziato che la «Pratica della trasmissione da parte degli imputati di “ambasciate” in Calabria è dimostrativa della loro appartenenza ad una articolazione delocalizzata della ‘ndrangheta», dato che gli affiliati aostani «Provvedono a comunicare gli elementi nuovi emersi in relazione alle dinamiche associative, sottopongono i problemi dovuti alle tensioni con altri soggetti», nonché «Sollecitano giudizi su eventuali comportamenti scorretti posti in essere da alcuni dei sodali». Un quadro sufficiente a dimostrare l’«Integrale coesione dettata dal senso di appartenenza al “gruppo” o alla “famiglia”».

Nell’altro ramo processuale che affonda le sue radici nell’operazione “Geenna” il dibattimento si è tenuto con il rito ordinario. In questo caso, al termine del giudizio di secondo grado sono stati condannati per associazione di tipo mafioso il titolare della Pizzeria La Rotonda Antonio Raso e i dipendenti del Casinò Nicola Prettico e Alessandro Giachino, mentre per l’ipotesi di concorso esterno i giudici hanno confermato la condanna dell’ex assessore a Saint-Pierre Monica Carcea. Invece l’ex consigliere regionale Marco Sorbara, al quale in primo grado erano stati inflitti 10 anni di carcere, è stato assolto con formula piena. La Procura generale e gli avvocati difensori hanno impugnato la sentenza ricorrendo alla Corte di Cassazione. Ora, dopo il deposito delle motivazioni del verdetto, il processo in abbreviato seguirà un percorso analogo per giungere al terzo e ultimo grado di giudizio.

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