Montagne ricche/montagne povere 4. La montagna capovolta
Fu l’invenzione dello sci ad arricchire la montagna. Al prezzo di capovolgerla e desacralizzarla.
Fu lo sci alpino, il “discesismo”, come lo chiamavano agli inizi - non l’alpinismo, il trekking, lo sci nordico o la villeggiatura - che ha rivoluzionato l’uso pubblico della montagna arricchendone una parte, solo una parte: il domaine skiable.
Fu lo sci che ha modificato la percezione della neve, trasformando un’antica maledizione che paralizzava la vita dei montanari nell’“oro bianco”.
Fu lo sci che ha invertito il ritmo stagionale della fruizione alpina, aprendo le porte all’assai più lunga stagione del turismo invernale. Che ha capovolto il senso stesso di percorrenza della montagna, trasformando la fatica e la lentezza del salire nell’ebbrezza della discesa e della velocità.
Fu la diffusione di massa dello sci alpino a espugnare le ultime fortezze della natura selvaggia, a cancellare il pittoresco e a trasformare alcune parti della montagna, il territorio addomesticato delle remontées mécaniques, nella banlieu blanche della città.
Lo sci ha desacralizzato la montagna e, allo stesso tempo, l’ha resa ricca. Tutto ebbe inizio negli anni Trenta, nei primi cantieri del modernismo alpino: Cervinia e Sestrière. E a Courmayeur, con la teleferica per il Chécrouit e la fondazione, nel giugno del 1936, al Colle del Gigante, della prima scuola di sci. Eccentrici pionieri, a quel tempo, che secondo i giornali locali davano un “curioso spettacolo lanciandosi a grande velocità, in neve fresca, tra alberi, buche, salti, dossi, rocce”. Non c’erano né piste, né gatti della neve, né skilift, né funivie, Ogni sciatore doveva scegliersi il tracciato più adatto e risalire il pendio con gli sci in spalla. Eppure qualcuno aveva visto lontano. La Guida turistica di Courmayeur, di Alessio Nebbia, nel 1930, presentava Courmayeur come un “centro turistico adatto a tutte le stagioni, ma specialmente all'inverno”, quando "tutto si ricopre di una soffice e spessa coltre di neve” e "la conformazione del terreno”, non avrebbe tardato a farne "una delle stazioni invernali più frequentate”. E in effetti, nel secondo dopoguerra, il soggiorno invernale incominciò a superare, per numero e durata delle presenze, quello estivo.
La ricchezza della Valle d’Aosta fu in mano all’industria della neve. Gli impianti a fune divennero strategici, come la preparazione delle piste e l’innevamento artificiale. La buona e cattiva sorte incominciarono a dipendere dai capricci del tempo.
Una scelta molto pericolosa. Lo vediamo in questi nostri tempi infausti. Lo dicevamo in tempi non sospetti: puntare tutto sullo sci è un azzardo. Nessuno, è vero, immaginava un virus; si pensava più semplicemente al riscaldamento climatico, alla neve sempre più rara, ai costi dell’innevamento artificiale, al cronico passivo degli impianti a fune, all’impatto ambientale dello sfruttamento intensivo del domaine skiable. Adesso è un imperativo: non solo sci. L’offerta turistica della montagna deve ritrovare le sue radici, religiose, romantiche, scientifiche, ce n’è per tutti, da cui ripartire per un offerta nuova, flessibile, variegata, sostenibile.
(continua)