Incontri 4. Enrico Camanni. La terza via, vent’anni dopo
Vent’anni fa usciva presso l’editore Bollati Boringhieri un piccolo, ma fondamentale libro che apriva una stagione di studi e ricerche sul futuro del mondo alpino, La nuova vita delle Alpi di Enrico Camanni, ovvero la ricerca di una terza via per la montagna tra l’ipotesi di un’appendice ludica delle città e un parco museo a tutela della wilderness integrale, una sfida a conciliare le ragioni dell’ambiente con quelle dell’economia, la tradizione con la modernità. Un futuro della montagna che non sia né Cervinia, né Valsavarenche, ma un modello nuovo, tutto da inventare.
Enrico, a che punto siamo con la “terza via”?
«Mentre scrivevo La nuova vita delle Alpi mi sembrava evidente che la Convenzione delle Alpi avesse già indicato la terza via, ponendosi come una carta di principi sovrastatali e sovralocali cui gli stati e le comunità alpine avrebbero potuto ispirarsi. Era la via dello sviluppo sostenibile, un concetto così frusto e dialetticamente abusato da apparire quasi superato, eppure fondamentale se si provava a guardare alle Alpi come a un luogo da rinnovare in forme vive, non museali. Oggi, se mi si chiedesse che cosa sia cambiato sull’arco alpino italiano risponderei così: sul piano dell’immagine è cambiato poco, tanto che giornali, web e televisioni continuano a inseguire il solito vecchio schema bipartito: le romantiche Alpi della tradizione e le “moderne” Alpi del divertimento (consumo) urbano; sul piano delle politiche è cambiato poco, perché se si escludono le regioni a statuto speciale, in primis la Provincia di Bolzano, non si nota alcun interessamento significativo dei governi regionali italiani per i destini delle loro montagne, tuttora considerate arretrate e perdenti, almeno dal punto di vista elettorale; sul piano delle avanguardie è cambiato molto, e lo dimostrano gli incoraggianti casi di buone pratiche diffusi sull’arco alpino e l’ampio dibattito sviluppatosi intorno alle Alpi come laboratorio d’Europa».
Mi pare che in particolare la questione si sia centrata sullo sci e il suo futuro. Lo sci è quello che ha arricchito la montagna, ma ha anche avuto l’impatto ambientale più forte. Come ci si deve preparare a un futuro con poca neve?
«Innanzitutto bisogna accettare il cambiamento e non continuare a pensare e investire come fossimo ancora negli anni Ottanta del Novecento. L’industria dello sci pesa e peserà sempre di più sulle tasche dei contribuenti, quindi la politica deve fare delle scelte urgenti: non accanirsi nella progettazione di nuovi impianti, come già ammoniva la Convenzione delle Alpi; rimodernare i vecchi solo dove vale la candela, e dismettere le stazioni e stazioncine sotto i 1800 metri di quota per mancanza di neve. Si tratta di deviare gradualmente una parte del sistema-sci verso un turismo più dolce, sostenibile e soprattutto elastico, in grado di affrontare anche i momenti di crisi come la recente pandemia».
Mercalli ci dice che bisognerà salire in montagna per sfuggire ai cambiamenti climatici. A che punto siamo con i “nuovi montanari”? Si può già intravedere una montagna autosufficiente, che non abbia bisogno di finanziamenti pubblici?
«Oggi il precariato è dappertutto, in centro e in periferia, in basso e in quota. L’equazione città-lavoro e montagna-svago si è fatta sempre più imperfetta. C’è chi scende in pianura per emanciparsi dal passato e chi sale in montagna a inventarsi un futuro. Chi sale è il cosiddetto “nuovo montanaro” che ha scelto di abitare le terre alte, o di ritornare nei luoghi dei suoi vecchi. È montanaro per vocazione, non per nascita o punizione. Probabilmente sarà l’unico abitante delle Alpi di domani. Anche questo ipotizzavo nel 2002, ed erano solo ipotesi, appunto, finché con la nascita dell’Associazione Dislivelli arrivò la prima vera ricerca sul tema dei “nuovi montanari”: Vivere a chilometri zero, Torino 2010-11. Ottenemmo una prima risposta fondamentale: in Piemonte i nuovi montanari esistevano. In Valchiusella si erano registrati 385 nuovi residenti negli ultimi 5 anni, 1450 in bassa Valle di Susa, 837 nell’alta valle e 297 in alta Langa. Non erano ancora cifre in grado di rovesciare i destini della montagna, ma potevano rallentare e talvolta invertire le dinamiche dello spopolamento di metà e fine Novecento, specie nei comuni più vicini all’area metropolitana. I nuovi arrivi generavano circuiti virtuosi, perché con la crescita della popolazione miglioravano i servizi e diventava più difficile chiudere un asilo o una farmacia. Ma c’era dell’altro. Le interviste di Dislivelli mostravano che la ripresa delle terre alte dipendeva spesso dalla salita della gente di pianura, che è diversa dal montanaro doc per stili e progetti di vita. In definitiva scoprimmo che il fenomeno della “risalita” esisteva, ma in piccole quantità. Che non era affatto univoco, ma rispondeva a svariate necessità e generava risposte diverse. Ecco, direi che siamo ancora a quel punto lì. Comunque ho avuto la conferma che non si è più montanari per nascita. Avevo visto giusto».
La montagna sta godendo di una nuova fama come luogo dell’avventura moderna. Oggi le grandi case editrici si sono buttate sulle avventure estreme in alta montagna. Da Krakauer a Lagercranz, fino ai tuoi gialli sul Monte Bianco, mi pare che la montagna goda di una rinnovata fortuna letteraria. Purché ci sia la tragedia in agguato. La montagna non è più la “maestra di vita” dei tempi di Quintino Sella e dell’abbé Gorret?
«Il genere “giallo”, che andrebbe definito perché comprende molte declinazioni, è un modello narrativo che ben si adatta alla nostra realtà ambigua e spezzata, montagna compresa. Ma non ha necessariamente a che fare con le imprese sportive e con la tragedia: piuttosto con l’incertezza, il dubbio, il mistero. La vera novità è la recente narrativa che esula dall’alpinismo e parla di montagna in senso lato. La “maestra di vita” dei quarantenni di oggi è un territorio in cui i cittadini, magari confusamente, cercano un nuovo rapporto con la natura. Che poi è vecchissimo».