Zero flessibilità e stipendi bassi: la “fuga” in Svizzera degli infermieri valdostani
«Se l’Usl cura i cittadini, dovrebbe preoccuparsi di curare anche i propri lavoratori, di trattarli con maggiore considerazione e umanità». A dirlo è Chiara Pasqualotto, dirigente sindacale della segreteria Cisl Funzione Pubblica, il sindacato più rappresentantivo dei dipendenti dell’Usl Valle d’Aosta. Già prima dell’inizio della pandemia si era registrato un calo di 40 unità - su 1.700 complessive, di cui 600 infermieri - nelle risorse umane, tra neo pensionati e chi si era licenziato. «Il fenomeno dell’abbandono del posto di lavoro si è aggravato nell’ultimo anno e mezzo, anche a causa del Covid che ha esacerbato gli animi, e si sono persi ulteriori 25 o 30 lavoratori. - prosegue Chiara Pasqualotto - Fa specie pensare che si tratti di posti a tempo indeterminato nel settore pubblico, sogno della maggior parte degli italiani, ottenuti dopo lunghi percorsi di studio e dopo aver superato concorsi. E’ un campanello d’allarme importante di quanto l’ambiente di lavoro nel settore sanitario sia diventato tossico, al punto da spingere anche persone di mezza età, con molti anni di anzianità e una famiglia in Italia, a fare scelte diverse. Secondo l’Ospedale regionale, da noi interpellato, le ragioni sarebbero in primo luogo economiche. In realtà, più logorante dello stipendio basso è l’essere considerati numeri e non persone, oltre alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia soprattutto per le lavoratrici madri, che hanno ben poche speranze di ottenere un part-time. La sola preoccupazione per l’azienda è coprire i turni. Unico spiraglio positivo è ora l’insediamento del nuovo commissario straordinario dell’Usl VdA Massimo Uberti, che sembra avere una maggiore attenzione alla sicurezza e alla salute dei dipendenti».
Uno dei primi ad andarsene 6 anni fa, dopo aver lavorato al Pronto Soccorso dell’Ospedale regionale “Umberto Parini” per 11 anni, è stato Luigi Barailler, attualmente infermiere per il 144 - ovvero le ambulanze - in Svizzera, nel Cantone di Vaud. «Già allora mi ero reso conto che la Usl VdA era un ambiente tossico per i lavoratori. - racconta Luigi Barailler - Amando la mia professione ho deciso di trasferirmi sul lago Lemano, a circa 2 ore da Aosta, dove torno quando ho dei giorni di riposo». L’aspetto economico è importante, ma non è l’unico, anche se lo stipendio può essere triplo, soprattutto per i residenti - i transfrontalieri sono pagati meno - e per gli infermieri specializzati. «C’è un approccio totalmente diverso: - continua Luigi Barailler - tutti i mesi si fa una riunione con i capiservizio, che mettono al corrente dei progetti i dipendenti, i quali vengono ascoltati se hanno osservazioni o criticità da evidenziare. La clinica paga la formazione al lavoratore, che ha uno scatto di stipendio non indifferente e ha solo il vincolo di rimanere almeno un paio d’anni nell’ azienda che lo ha formato. Non c’è esclusività, si possono avere più contratti, l’importante è non superare un certo numero di ore settimanali. Si può perfino esercitare la professione in forma autonoma, pur avendo un contratto. Il dipendente è visto come un investimento».
Anche S. E. - il nome per esteso non vuole rivelarlo - ha deciso di trasferirsi, a marzo 2018, nel Canton Ticino, lasciando l’Ospedale di Aosta, dove lavorava dal gennaio 2013, prima da precaria poi a tempo indeterminato dal 2016. Ora è infermiera in uno degli ospedali di Lugano, dove ha raggiunto il marito, a sua volta infermiere: «In Svizzera è più facile essere assunti, vince il colloquio sul concorso, ma soprattutto c’è una diversa valorizzazione della professione infermieristica. Si riconoscono, a fronte di una formazione adeguata, capacità professionali tali da assumersi responsabilità in urgenza, in terapia intensiva, in sala operatoria. Anche a livello sociale, l’infermiere gode di maggiore considerazione».
Un’altra infermiera, che preferisce restare anonima, lavora da 3 anni in Svizzera, dopo ben 30 anni all’Ospedale regionale di Aosta. Ha preso la decisione, che stava meditando da tempo, dopo che le è stato prospettato un improvviso cambio di reparto che l’avrebbe costretta a turni e orari inconciliabili con le esigenze familiari e a re-imparare l’utilizzo di nuovi macchinari per i quali occorrevano conoscenze informatiche: «Tanto valeva ricominciare altrove, all’estero, in una microcomunità per anziani nel Vallese, non distante dal confine con la Valle d’Aosta, a un’ora da casa. Il che mi consente di fare la transfrontaliera. Il maggiore guadagno, circa il doppio di uno stipendio in Italia, non è l’unica ragione. La qualità della vita nel luogo di lavoro è analoga, tuttavia ci sono una migliore organizzazione e una maggiore flessibilità negli orari. Pur prevedendo il contratto di 42 ore settimanali, a fronte delle 36 in Italia, si può scegliere di lavorare con una riduzione di orario, per poi tornare al 100 per cento in qualsiasi momento lo si desideri».
Concorda un’altra infermiera, che dopo 11 anni ad Aosta (gli ultimi 3 al Pronto Soccorso e durante la pandemia anche nel reparto di rianimazione), lascerà l’Ospedale regionale lunedì prossimo, 15 novembre, per iniziare a dicembre in Svizzera, in una clinica per anziani nel Vallese, pur continuando a vivere ad Aosta: «Lavorerò 12 ore al giorno, quindi solo 12 giorni al mese; avendo 4 giorni liberi alla settimana, avrò più tempo per me, la mia famiglia e le mie passioni. Si può scegliere se essere a tempo pieno o parziale, cambiando anche più volte nel proprio percorso professionale. Lavorando solo di giorno e non su turni, inoltre, migliora nettamente la qualità della vita. Avendo più personale, in Svizzera possono andare incontro alle esigenze del personale, tanto che sarei andata a lavorare lì anche a parità di stipendio».