Una grande mostra antologica al Forte di Bard indaga il mondo artistico di Antonio Ligabue

Una grande mostra antologica al Forte di Bard indaga il mondo artistico di Antonio Ligabue
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«Quando osservo gli autoritratti di Antonio Ligabue mi viene in mente un racconto della scrittrice finlandese Tove Jansson - afferma Luciano Manicardi, priore di Bose, comunità monastica che ha sede nel Comune di Magnano, in provincia di Biella, che ha realizzato uno dei testi critici in catalogo - nel quale Mumintroll si nasconde nel grande cappello del mago, inconsapevole che tutto ciò che vi entra cambia aspetto per sempre. Una volta uscito, gli amici fuggono spaventati e la piccola creatura si ritrova intrappolata nella solitudine delle sue nuove mostruose sembianze, cercando di spiegare, senza successo, la sua vera identità. Solo lo sguardo materno, colmo d’affetto, riuscirà a riconoscerlo». Antonio Ligabue non ha mai ricevuto quello sguardo capace di discernere l’umanità e l’amabilità delle persone al di là dell’aspetto, non ha mai goduto di quel riconoscimento diffuso di artista di valore assoluto che gli compete: egli suscitava interesse più per i comportamenti bizzarri che per le qualità artistiche. Inaugurata la sera dello scorso giovedì 28 ottobre, fino a domenica 9 gennaio il Forte di Bard ospita una grande mostra antologica in suo onore, curata da Sandro Parmiggiani, che ne ripercorre l’intero percorso artistico attraverso diversi strumenti espressivi: “Antonio Ligabue e il suo mondo” conta 90 opere declinate in dipinti, disegni, incisioni e sculture. Messo alla luce a Zurigo nel 1899 da un’emigrata italiana e affidato ad una famiglia locale, dopo vari ricoveri psichiatrici e difficoltà Antonio Ligabue venne espulso dalla Svizzera e trasferito a Gualtieri, nella bassa reggiana: irrequieto, sradicato e catapultato in un luogo di cui non conosceva nemmeno la lingua, si ritrovò sulle rive del Po, in mezzo all’argilla che diventò presto un’alleata artistica. Nel 1928 iniziò a dipingere la sua identità perduta giustapponendo i paesaggi padani ai ricordi di castelli e bandiere al vento della terra natia. Rappresentò anche delle scene di lotta tra animali esotici e feroci, spesso con un terzo incomodo in agguato, simbolo della sua battaglia per la sopravvivenza. Dal 1940 cominciò a ritrarsi evidenziando i difetti e le lesioni autoinflitte per affermare la propria identità derisa e umiliata, alla ricerca disperata di rispetto e accettazione. Dalle pupille traspare terrore, sembrano mendicare pietà: gli occhi, del resto, sono lo specchio dell’anima e Ligabue si sentì sempre rifiutato e abbandonato dalla società. «Morto nel 1965, a lungo le sue ali di pittore sono state tarpate con la definizione di naïf e i suoi quadri considerati come figli della follia, ma era matto solo per le persone intorno a lui. - sottolinea il curatore Sandro Parmiggiani - Ligabue torna finalmente ad essere un essere umano e in questa mostra artista e persona sono sovrapposte e unite, restituendoci il volto di un grande artista e di una straordinaria persona, ricongiungendo finalmente le due facce». L’epitaffio sulla tomba a Gualtieri recita: «Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all'ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore». Ligabue rivendicò la propria umanità attraverso la ripetitività delle pose come se si sentisse imprigionato in quel corpo sgraziato e respinto dal quale non poté mai fuggire: i suoi occhi continuano a cercare un volto affabile che gli dica finalmente «Sì, ti riconosco».

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